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Lappola e Vita Selvatica

Lappola e Vita Selvatica da “Dioscurides Neapolitanus”                       Biblioteca Nazionale di Napoli

La Biblioteca Nazionale di Napoli custodisce un prezioso codice considerato come il più importante manuale di medicina e di farmacia di tutto il mondo greco-romano, ovvero il cosiddetto “Dioscurides Neapolitanus” (Codex ex Vindobonensis Graecus I), un erbario in cui  le piante prese in esame sono accompagnate da un commento nel quale si descrivono le loro qualità e caratteristiche, l’habitat e l’utilizzo terapeutico.

Questo codice, conosciuto come Dioscurides Neapolitanus, ci testimonia l’opera di Dioscoride Pedanio (in greco: Πεδάνιος Διοσκουρίδης, Pedànios Dioskourìdes), nato ad Anazarbe presso Tarso in Cilicia e vissuto nel I sec. d.C. (40 circa – 90 circa). E’ stato un medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma. Al tempo di Nerone, scrisse il trattato, Perì üles iatrichès, in cinque libri, considerato il più importante manuale di medicina e di farmacia di tutto il mondo greco romano e, nel medioevo, tenuto nella massima considerazione sia in occidente che tra gli arabi. In esso si parla dell’efficacia terapeutica delle sostanze naturali animali, vegetali e minerali. Il codice della Biblioteca Nazionale di Napoli ci tramanda il solo “erbario” in 170 pagine miniate, con tutte le piante medicinali conosciute, accompagnate da un commento scritto per la descrizione della singola pianta, dell’habitat, dell’utilizzo terapeutico. Fortemente legato al Dioscurides Costantinopolitanus di Vienna – prodotto a Costantinopoli intorno al 512 per la principessa Giuliana Anicia, figlia dell’imperatore d’Occidente Flavio Anicio Olibrio – probabilmente quale derivato di un medesimo archetipo, non riporta figure antropomorfe e zoomorfe, come il codice viennese ed altri dioscuridei, quali il Chigiano e il Parigino.

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La vivacità e la finezza delle illustrazioni, l’impostazione delle pagine, l’alta antichità rendono questo codice una testimonianza fondamentale della cultura medica greco-romana e della sua accoglienza nel mondo bizantino tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, epoca alla quale si fa risalire la sua composizione. Come aveva già sostenuto la studioso Bernard de Montfaucon, che alla fine del XVII secolo lo vide a Napoli e ne lodò la bellezza, è quasi certa la sua origine italiana, sebbene alcuni studiosi inclinino ad attribuire la sua provenienza all’Esarcato di Ravenna, e altri all’Italia Meridionale, in particolare alla Calabria dove si trovava il monastero fondato da Cassiodoro.

Il codice, la cui presenza a Napoli è attestata fin dagli inizi del 500, presso il convento agostiniano di S. Giovanni a Carbonara, fu portato a Vienna nel 1718, durante il periodo della dominazione austriaca nell’Italia meridionale (dal 1714 al 1734), per volere di Carlo VI d’Asburgo, insieme ad altri libri di grande valore e importanza. Esso fu restituito all’Italia solo dopo la prima guerra mondiale e la conseguente caduta della monarchia degli Asburgo, nel 1919; dopo una breve sosta alla Biblioteca Marciana di Venezia, tornò definitivamente a Napoli il 7 giugno 1923 per esservi custodito nella Biblioteca Nazionale.

Le 409 figure di piante che corredano questo magnifico testo occupano la parte superiore del “recto” di ciascun foglio. A differenza del Dioscuride viennese, le immagini hanno dimensioni più ridotte e si trovano inserite a gruppi di due o tre per pagina (in due soli casi una figura singola). Il testo esplicativo sarebbe stato scritto dopo la stesura delle immagini.

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Se nel manoscritto viennese si possono notare almeno due stili figurativi. uno rispondente a una maggior resa plastica, l’altro tendente all’appiattimento delle immagini, nel Dioscoride napoletano la serie figurativa appare nel complesso omogenea, ma evidenzia peraltro un più debole riferimento all’osservazione naturalistica e una maggiore tendenza al decorativismo e alla stilizzazione, che sembra preannunciare gli erbari medioevali.

Peraltro gli studiosi ritengono che i due codici derivino dagli stessi archetipi (copie originali), probabilmente del III secolo, benché nel manoscritto viennese l’aderenza ai modelli classici, ai quali era più vicino anche sul piano cronologico, sia più spiccata.

Parlando degli antichi codici miniati si rende necessario trattare brevemente del materiale sul quale erano redatti (ovvero la pergamena) e della scrittura (onciale scrittura antica greca e latina, usata nei codici tra il secolo III e il IX, di forma tondeggiante) con la quale il testo prendeva forma.

La materia scrittoria per eccellenza impiegata nell’età classica greco-romana era il papiro, prodotto, come è noto, con il fusto di una pianta palustre (Cyperus papyrus) che si coltivava in Egitto, sulle rive del Nilo, fin dalla più remota antichità.

Tuttavia, per varie ragioni (maggior praticità e disponibilità di spazio, minor costo) a partire dal II secolo l’uso del papiro fu progressivamente soppiantato da quello della pergamena, tanto che dal IV sec. in poi la quasi totalità dei testi letterari, filosofici e scientifici furono scritti su codici membranacei (cioè di pergamena), mentre l’impiego del papiro per scritti letterari divenne sempre più raro, per sparire del tutto nell’VIII secolo. Esso si mantenne invece per i documenti e continuò fino all’XI secolo, specie nelle aree bizantine o di influenza bizantina, allorché, a causa di una mancata inondazione annuale del Nilo, la produzione su vasta scala del papiro, che era continuata anche dopo la conquista dell’Egitto da parte degli Arabi, non venne a cessare.

La pergamena è costituita dalla pelle di certi animali convenientemente trattata in modo da ridurla in fogli bene spianati, sottili e lisci. Secondo un’antica tradizione riferita da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XIII, 11), l’uso della pergamena sarebbe stato introdotto da Eumene  II, re di Pergamo (dal 195 al 198 a.C.) per rimediare alla mancanza del papiro che il re d’Egitto non voleva mandargli, affinché egli non potesse creare un biblioteca che oscurasse quella di Alessandria (1).

Moneta con l'effigie di Eumene II, re di Pergamo.

Di certo però l’uso della pergamena era più antico, ma il nome stesso indica che Pergamo, antica città dell’Asia Minore, fu il centro principale della sua produzione. Tuttavia il nome usato dai Greci era “diphthera” e dai Romani “membrana” (da cui codice “membranaceo”), mentre il nome “pergamenum” non si trova prima del IV sec.; nel Medio Evo era indicata anche con la designazione impropria di “charta”, che in origine significava il foglio di papiro.

Per la preparazione della pergamena venivano adoperate le pelli di diversi animali (che contribuivano così con il loro sacrificio alla diffusione della cultura…), in particolare bovini ed ovini. La morbidezza e il colore dipendevano principalmente dal sistema impiegato nella preparazione che non era uguale dappertutto; si può distinguere la pergamena fabbricata in Italia e in Spagna, bianca e sottile, da quella della Francia e della Germania, più spessa e scura.

Di norma la pergamena esigeva ancora una preparazione immediata da parte dello scrittore per renderla del tutto liscia levigandola con la pomice e per ridurla alla grandezza desiderata.

I più antichi esempi di pergamena rimasti sono pochi frammenti che risalgono al III secolo, ma di certo, secondo la testimonianza di alcuni scrittori, già in epoche anteriori esistevano codici membranacei. In una lettera di S. Paolo se ne trova un accenno esplicito nell’invito a Timoteo a portare con sé i libri sacri, ma specialmente quelli in pergamena (Ad Tim., II, 4, 13); e Marziale ricorda le opere di Omero, Virgilio e altri autori scritte “in membranis” (Epigrammatica, I,2; XIV, 184, 186, 188, 190, 192). Tuttavia l’impiego della pergamena doveva essere alquanto scarso, perché gli scavi di Ercolano e Pompei non ci hanno dato finora frammenti membranacei, né gli scavi in Egitto (dove in diverse località sono stati trovati numerosi papiri con testi di vario genere) frammenti anteriori al III sec.

A partire dalla fine del III sec. la pergamena divenne d’uso comune, tanto che la troviamo presente nell’editto “De pretiis rerum venalium” emanato da Diocleziano nel 301. Con il secolo VIII i codici membranacei divengono numerosissimi e fino al sec. XIII, quando sorse la concorrenza della carta, la pergamena ebbe il dominio assoluto nel campo librario. Nell’uso diplomatico e amministrativo invece essa si affermò più tardi, perché nella redazione dei documenti ufficiali si conservarono più a lungo le forme tradizionali, e, come abbiamo già detto, fino all’XI sec. continuò a prevalere l’impiego del papiro. Tuttavia i primi documenti su pergamena appaiono in Gallia nel VII secolo.

La pergamena usata per i codici è più fine e levigata, perché destinata a ricevere la scrittura su entrambe le facciate, mentre quella dei documenti è lisciata solo da una parte, mentre dall’altra rimaneva ruvida e scura, poiché in essi si scriveva soltanto sul “recto”.

Nei codici più antichi, -dei secoli IV-VI-, la pergamena è di buona qualità, bianca e fine, senza difetti di taglio o di concia; in seguito diviene pesante e giallastra, con diseguaglianze di colore e irregolarità di concia. Nel XIII sec. si tornò a una buona preparazione; nel XIV secolo si trovano talora pergamene sottilissime; i manoscritti del rinascimento italiano mostrano spesso una singolare bianchezza.

Di seguito un video sul “Dioscurides Neapolitanus”, una pietra miliare della storia della fitoterapia, un prezioso anello di raccordo tra il sapere classico e quello medievale un capostipite degli erbari figurati e madre di tutte le farmacopee.

 

 

Il codice della Biblioteca Nazionale di Napoli da sfogliare on-line

 

 

 

 

 

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