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Il Percorso Aquila Reale
Il Percorso Formativo “Aquila Reale” ricorda la Storia di un re che ha visto il suo epilogo in piazza Mercato.
Corrado Hohenstaufen, detto Corradino (Landshut, 25 marzo 1252 – Napoli, 29 ottobre 1268), è stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV), Re di Sicilia (1254-1258, come Corrado II) e Re di Gerusalemme (1254-1268, come Corrado III); fu l’ultimo degli Hohenstaufen regnanti.
Era figlio dell’imperatore Corrado IV e di Elisabetta di Wittelsbach. Alla morte di suo padre, avvenuta quando egli aveva solo due anni, Corradino gli successe nella titolarità delle corone della casata (quantomeno quelle ereditarie).
Corradino, re di Sicilia per soli quattro anni, dai due ai sei anni d’età, crebbe così in disparte, in Baviera lontano dall’agone italiano, il vero terreno dello scontro tra guelfi e ghibellini, tra papato e impero, il teatro dei trionfi e dei rovesci della straordinaria storia della sua stirpe. Crebbe sotto l’ala protettiva di sua madre e dedito alla poesia e alle virtù cortesi.
Ma il suo destino lo raggiunse egualmente e Corradino gli corse incontro. Dopo la morte dello zio Manfredi, ucciso nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio 1266, i ghibellini italiani ne implorarono la venuta nella penisola e Corradino nel settembre del 1267 si mosse finalmente alla riconquista del suo regno, passato nel frattempo sotto la corona di Carlo I d’Angiò, il vincitore a Benevento.
Arrivato in Italia, Corradino incoraggiato dalle vittorie riportate in Toscana sugli Angioini dal suo sodale Federico duca d’Austria e da alcuni rilevanti successi marinari degli alleati pisani, che tra Calabria e Sicilia inflissero perdite ingenti alla flotta angioina, Corradino si illuse di aver facilmente ragione del nemico.
Corradino si diresse quindi verso il Sud e giunto alle porte del suo regno, presso Scurcola Marsicana, venne finalmente a contatto con le schiere di Carlo d’Angiò. Qui ebbe luogo la tragica e fatale battaglia che poi Dante Alighieri ha reso celeberrima col nome di battaglia di Tagliacozzo, il 23 agosto 1268. Corradino fu sconfitto dopo un’apparente vittoria iniziale.
Corradino si dette alla fuga, dirigendosi verso Roma. La città che poco tempo prima lo aveva trionfalmente accolto, si dimostrò ora ostile allo sconfitto. Lo svevo e i suoi risolsero che sarebbe stato più prudente lasciare Roma per lidi più sicuri. Raggiunta con i suoi compagni Torre Astura, località del litorale laziale nei pressi di Nettuno, Corradino tentò di prendere il mare, probabilmente diretto verso la fedelissima Pisa. Fu invece tradito da Giovanni Frangipane, della omonima famiglia, signore del luogo, e consegnato a Carlo d’Angiò. Processato e condannato a morte, fu decapitato a Campo Moricino (l’attuale Piazza del Mercato di Napoli), il 29 ottobre 1268.
Carlo, implacabile nella decisione di giustiziare Corradino ma temendo di alienarsi, con l’uccisione di un fanciullo, la fedeltà delle popolazioni conquistate (anche perché era ovvio che Corradino era incolpevole del crimine di majestas – cioè di infedeltà all’usurpatore francese – di cui era assurdamente imputato), volle giustificarsi con la difesa dei diritti della Chiesa, la cui autorità Corradino avrebbe minacciato; da ciò nacque la celebre frase attribuita senza alcuna prova a Clemente IV: Mors Corradini, vita Caroli. Vita Corradini, mors Caroli (La morte di Corradino è la vita di Carlo. La vita di Corradino è la morte di Carlo). Non ci sono documenti in cui il Papa, che invece più volte aveva rimproverato a Carlo la sua crudeltà e la durezza dei suoi metodi coi quali avrebbe perso il favore del popolo, abbia detto ciò; abbiamo però una lettera di Carlo al Papa in cui gli dice che Corradino ha meritato la fine che spetta ai “persecutori della Chiesa”.
I cadaveri di Corradino e degli altri giustiziati, come era stato per lo zio Manfredi, non ebbero sepoltura; furono trascinati verso il mare, che dista pochi passi dal luogo del supplizio, e abbandonati, ricoperti solo parzialmente con sassi dal popolo impietosito. Solo le preghiere della disperata madre riuscirono a ottenere che il corpo di Corradino avesse infine sepoltura.
Sul luogo dove avvenne l’esecuzione fu edificata una chiesa, l’attuale Santa Croce e Purgatorio al Mercato, dove si trova una delle testimonianze più suggestive del triste evento. Si tratta di una colonna commemorativa in porfido che reca incisa questa frase:Asturis ungue leo pullum rapiens aquilinum hic deplumavit acephalumque dedit, così traducibile: il leone artigliò l’aquilotto ad Astura, gli strappò le piume e lo decapitò.
È invece nella vicina chiesa di Santa Maria del Carmine che riposano le spoglie di Corradino: qui si ammira il monumento funebre dello sventurato principe, fatto erigere, secoli dopo, da Massimiliano II di Baviera e disegnato dallo scultore danese Bertel Thorvaldsen. La lastra frontale del basamento su cui poggia la statua di Corradino reca incisa la dedica del Duca di Baviera che definisce il giovane re “l’ultimo degli Hohenstaufen”. Al Carmine, in virtù del lascito della madre, vanamente accorsa a Napoli per riscattarlo, vien detta annualmente una messa in suffragio di Corradino di Svevia.
Dopo l’8 settembre 1943, i monaci del Carmine dovettero occultarne le spoglie di cui Hitler aveva disposto il “ritorno” in Germania.
La tragica fine dell’ultimo degli Svevi commosse in ogni tempo letterati e artisti, che circondarono di un alone romantico la sua personalità.
E alcune leggende fiorirono già negli anni immediatamente successivi alla sua morte, tutte relative alla sua decapitazione. Una prima versione vuole che Corradino, affrontando con coraggio la sua sorte, gettasse tra la folla un guanto prima di porgere il capo al boia. Questo guanto sarebbe stato raccolto da Giovanni da Procida, medico e già consigliere di Federico II, che poi sarebbe stato tra gli animatori dei Vespri Siciliani, rivolta che sottrasse la Sicilia agli angioini per metterla sotto il dominio aragonese. Altra leggenda vuole che ad esecuzione avvenuta un’aquila (non a caso simbolo che compare sulle insegne della casata staufica) piombasse dal cielo per intingere un’ala nel sangue di Corradino e poi volare verso il Nord. Dante ricorda Corradino in un passo del canto XX del Purgatorio: « Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fé di Curradino; e poi…. » (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio XX, 67-68)
Il poeta ottocentesco Aleardo Aleardi gli dedicò una lirica dal titolo Corradino di Svevia. Anche lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius ha dedicato dei versi alla vicenda del giovane principe svevo. (da http://it.wikipedia.org/wiki/Corradino_di_Svevia)
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