Anno Scolastico 2018/2019: Anno dell’Acqua

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foto del mese: agosto 2019

Simone Martini, San Ludovico da Tolosa incorona Roberto d’Angiò, 1317, Museo di Capodimonte, Napoli

L’opera fu eseguita dal Martini, su commissione di Roberto d’Angiò, durante il suo soggiorno a Napoli avvenuto proprio intorno al 1317 (anno della canonizzazione di Ludovico), e fa seguito ai rapporti già esistenti tra la Casa d’Angiò e il pittore senese: questi già nei suoi affreschi assisiati aveva raffigurato, per due volte, San Ludovico e probabilmente, sempre ad Assisi, aveva dedicato al santo angioino un intero ciclo murale, nella cappella a San Ludovico precedentemente dedicata, poi completamente ridipinta, nel Cinquecento da Dono Doni.

Il dipinto ha una notevole rilevanza nel contesto storico napoletano in quanto testimonia un preciso momento politico: il momento in cui san Ludovico di Tolosa incorona il fratello minore Roberto.

Ludovico, che nel 1296 aveva abdicato al trono del padre Carlo II d’Angiò in favore di Roberto per entrare nell’ordine francescano, al momento della realizzazione della tavola era appena stato canonizzato; il nuovo re di Napoli, quindi, con questo dipinto intese creare un manifesto politico che legittimasse il suo potere.

Ma in verità, la tavola testimonia anche un altro, più sottile, aspetto politico. Ludovico d’Angiò, infatti, aderì senza riserve alla corrente spirituale del movimento francescano. Cioè quella fazione che interpretava in modo rigido l’insegnamento di Francesco, in particolare sulla necessità di vivere poveramente. Fazione presto entrata in odor di eresia ed avversata dalla parte moderata dell’Ordine (i conventuali) e dalle gerarchie ecclesiastiche.

La stessa tiara vescovile non rientrava affatto tra i desideri di Ludovico, anelante al contrario a condurre una vita più che mai umile. La dignità vescovile gli venne praticamente imposta quale condizione per entrare nell’Ordine e superare così le resistenze del padre, contrario all’ingresso del figlio tra i frati minori, tanto più conoscendone le tendenze spirituali. In sostanza, la sua elevazione a vescovo di Tolosa (episodio in effetti insolito per un “semplice” frate, per altro appena ordinato) ebbe la finalità di attenuare il clamore che comportava l’adesione di un rampollo di tale lignaggio alla corrente spirituale.

Ciò, tuttavia, non impedì a Ludovico di attuare i suoi propositi di povertà, come la sua stessa morte di stenti testimonia. Ma nella tavola di Simone Martini tutto ciò è accuratamente occultato. Ludovico è raffigurato in posa regale, il saio francescano è quasi nascosto da un manto lussuoso, ulteriormente arricchito da Simone con inserti preziosi. Anche nelle storiette della predella Ludovico è riccamente abbigliato.

Il dipinto di Capodimonte quindi, oltre a celebrare il casato angioino, si inscrive in quel programma, figurativo e non solo, di damnatio memoriae della componente spirituale del francescanesimo, programma che ha avuto avvio con la redazione della Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio – biografia ufficiale, per così dire “normalizzante” del Santo – e di cui lo stesso ciclo giottesco della Basilica inferiore di Assisi è espressione (ne sono espunti, infatti, gli aspetti più crudi dell’esempio di Francesco, come l’abbraccio ai lebbrosi o l’iniziale romitaggio).

L’opera fu inizialmente eseguita per il cappellone di Sant’Antonio, presso la basilica di San Lorenzo Maggiore. Solo successivamente, nel 1927, la stessa fu trasferita nel real museo borbonico prima ed in quello di Capodimonte poi.

La pala infine ha anche un primato, cioè quello di essere il primo sicuro ritratto nella pittura italiana di un personaggio vivente (Roberto d’Angiò).

La tavola assume la tipica conformazione di quelle del periodo bizantino. Le figure dei personaggi sono intere; quella di Ludovico, posta al centro della tavola nell’atto di incoronamento, è frontale ed indossa un piviale con gli attributi propri, episcopale, pastorale e mitra;

Sopra il santo due angeli sorreggono la corona, mentre al suo fianco, in proporzioni minori, seguendo il principio della gerarchia tradizionale, è rappresentato in ginocchio Roberto d’Angiò, nuovo re di Napoli.

I contorni della pala vedono una decorazione blu scura con gigli, proprio a rappresentare la casa d’Angiò. La tavola è poi completata nella parte inferiore dalla predella, in cui sono rappresentate con linguaggio giottesco cinque scene della vita del santo ed un miracolo attribuito a lui dopo la sua morte (avvenuta nel 1297).

Il fondo oro, infine, è un ulteriore elemento di matrice bizantina.

La tavola ha un evidente gusto gotico, frutto sia della formazione stilistica di Simone Martini, sia delle preferenze della corte angioina che, ricordiamo, era di provenienza francese. La costruzione è impostata su una evidente “prospettiva gerarchica”: il santo, pur collocato in secondo piano nello spazio dell’immagine, appare di molto più grande rispetto a fratello Roberto collocato in primo piano. L’incongruenza formale è accentuato dal carattere decisamente frontale della figura del santo: se si guarda con attenzione si nota che il braccio sinistro che fuoriesce dal mantello, e che regge la corona, ha il gomito dietro il fianco: ciò è assolutamente impossibile nella realtà, e quindi la costruzione dell’immagine non tiene affatto conto della reale tridimensionalità delle figure.

In pratica l’immagine ha un valore simbolico che trascende qualsiasi preoccupazione di verità mimetica di quanto rappresentato. Ciò ci dà il senso più preciso di come Simone Martini si muove in una concezione stilistica di matrice decisamente medievale, ignorando tutti quei problemi di naturalismo che invece stavano affrontando Giotto e gli altri pittori fiorentini alla ricerca di un maggiore verismo

Il carattere gotico di questa immagine viene ulteriormente integrato da altre precise scelte stilistiche: la linea sinuosa e di puro valore decorativo dei bordi delle vesti e del mantello del santo; la grande decorazione arabescata delle vesti; la preferenza per i colori intensi e squillanti. Ma il carattere gotico dell’immagine principale si perde completamente nella predella inferiore. Qui, Simone Martini dimostra di saper controllare la rappresentazione spaziale in maniera non inferiore allo stesso Giotto. La predella è suddivisa in cinque scomparti, contornati ognuno da un arco. Ma questi archi sono quasi come un portico oltre il quale si vede una sola scena. Infatti le cinque diverse scene sono unificate da un unico punto di fuga. Questo crea una sensazione spaziale di grande effetto, facendo sì, che l’occhio percepisca questa predella inferiore come il piano trasparente oltre il quale si sviluppano le scene.

Simone Martini è un pittore gotico sicuramente per scelta, non per limiti stilistici. Egli, infatti, nelle sue opere dimostra spesso di aver compreso appieno la ricerca naturalistica di Giotto e dei suoi seguaci, ma la sua arte si allinea al gusto gotico forse anche per adeguarsi al gusto dei suoi committenti, che probabilmente preferivano la ricchezza decorativa del gotico alla razionale, ma spesso spartana, immagine dell’arte giottesca.